Il DSM, in ogni sua edizione, è oggetto di dibattiti e critiche. Guaraldi (2014) ne ha sintetizzate alcune, riferite al DSM-5, applicabili anche alla sua revisione, il DSM-5-TR
Alcune critiche riguardano l’ateoricità. Per molti clinici e scienziati, è un punto di forza, ma secondo altri, in realtà il DSM-5 non sarebbe così a-teorico, nonostante si proclami tale, soprattutto perché sarebbe condizionato da interessi non solo ideologici, ma soprattutto economici, dato che la metà dei membri della Task Force, cioè del gruppo di lavoro, incaricato della revisione, ha intrattenuto rapporti professionali con le industrie farmaceutiche.
Inoltre, è stata contestata la rigidità statistica, in particolare nella scelta del cut-off, perché la diagnosi può essere effettuata anche riscontrando soltanto 3 dei criteri diagnostici previsti in una patologia, dunque secondo alcuni clinici è troppo poco e rischia di patologizzare anche situazioni non gravi e disagi lievi e transitori.
Inoltre, in questo modo dietro un’etichetta diagnostica potrebbero celarsi casi troppo distinti, perché uno può derivare dall’individuazione di soli 3 sintomi, un altro di 7, quindi 2 individui con un profilo psicopatologico molto diverso quantitativamente e qualitativamente, si troverebbero a ricevere la stessa diagnosi.
Al contempo, si è cercato di attenuare questo rischio, attraverso una soluzione che è stata ritenuta peggiore rispetto al problema, perché vengono incoraggiate le diagnosi multiple, favorite anche da un’eccessiva comorbidità e sovrapposizione tra patologie, che sono descritte in modo dimensionale, come aventi “barriere porose”, non come “pacchetti predefiniti (Guaraldi, 2014, p. 116-117).
Ciò è stato fatto anche per delineare una psichiatria preventiva, per intercettare il disagio anche quando si manifesta in modo lieve, evitando quindi la sua strutturazione in disturbo, ma dall’altro lato ciò potrebbe portare a epidemie e un iper-trattamenti, che medicalizza anche banali difficoltà quotidiane.
La dimensione opposta a quella categoriale è quella dimensionale, che invece colloca la patologia lungo un continuum, senza isolare entità cliniche discrete e presupponendo una differenza quantitativa tra sano e malato.
Una delle novità dell’attuale psichiatria è che si sta aprendo anche all’approccio dimensionale, rilevabile nel DSM-5 da alcuni cambiamenti rispetto alle precedenti edizioni (Guaraldi, 2014).
Una di queste è il concetto di spettro, che si applica, ad esempio, ai disturbi autistici, ora racchiusi in un’unica categoria, data la diversa espressività con cui si presenta nei bambini.
Sempre nell’ambito dello sviluppo, il ritardo mentale è stato ridenominato “disturbo dello sviluppo intellettivo”, conferendo centralità non al QI, che è un’indicazione numerica fredda dell’intelligenza, al funzionamento adattivo, che invece è un costrutto qualitativo che valuta le autonomie e le competenze del bambino, importanti ai fini del suo sviluppo e della sua integrazione scolastica, sociale e affettiva, più dell’intelligenza astrattamente intesa e quantitativamente misurata.
Un altro indicatore è l’abbandono della suddivisione in assi, che isolava artificialmente componenti che nell’esperienza sono compresenti e commisti.
Infine, nel DSM-5 vengono prese in considerazione le differenze di genere e cultura, che possono influenzare l’esordio e il decorso di un disturbo.
Bibliografia
Guaraldi, G. P. (2014). In difesa del DSM-5. Formazione Psichiatrica, 1, 113-119
Consapevole dei punti di forza e debolezza, la stessa APA raccomanda di utilizzare il DSM in modo flessibile, come un punto di riferimento condiviso, ma non come un testo sacro e assoluto da applicare rigidamente. Altrimenti, si rischia di procedere intuitivamente, caoticamente, proiettando sui dati i propri schemi e i propri bias (distorsioni cognitive) senza il rigore e la prudenza necessari per effettuare una diagnosi.
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