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Analizziamo questa metodologia, fase per fase, esaminando le attività che prevede.


Le fasi

La psicoeducazione generalmente prevede 3 fasi, anche se non sono obbligatorie: non è un protocollo rigido come spesso si pensa.

Prima fase

La prima fase è dedicata ad attività di informazione, dove lo psicologo ha un ruolo più direttivo.

In questa fase, lo psicologo può essere affiancato da un altro professionista (anzi, è consigliabile prevedere una figura con cui collabora, per dare l’idea di un’équipe) con cui fornisce informazioni su una problematica, sulle possibili cause, sulle modalità di intervento, sull’evoluzione nel tempo, aiutando le persone a fare chiarezza, a ricevere nozioni scientifiche su un fenomeno e a chiarire i dubbi.

Seconda fase

La seconda fase è non-direttiva e consiste nel predisporre un gruppo in cui lo psicologo assume il ruolo di facilitatore, perché stimola la discussione, il confronto e il cambiamento di atteggiamenti e di comportamenti inefficaci rispetto al problema.

Ciò aiuta i partecipanti ad attivare le loro risorse, a condividere le emozioni e a trovare nuove modalità di affrontare il problema stesso, che siano flessibili e non rigide.

Attenzione! Non occorre scomodare altre etichette per questi gruppi, ad esempio chiamandoli focus group, circle-time, ecc.! Sarebbe un errore, perché queste espressioni appartengono ad altre metodologie e ad altri settori.

Terza fase

La terza fase della psicoeducazione è semi-direttiva e pratica, poiché prevede l’organizzazione di attività di apprendimento esperienziale.

Ciò serve a sviluppare abilità trasversali, come la comunicazione efficace, il problem-solving, il decision-making, che consentono di gestire lo stress, di gestire le emozioni e di relazionarsi efficacemente.

Dunque, questa attività è semi-direttiva, poiché le tecniche appartengono al sapere specialistico dello psicologo, che in questa fase può essere affiancato, ad esempio, da un educatore esperto in educazione degli adulti.

Tuttavia, non le spiega in modo direttivo, attraverso lezioni frontali, bensì allestendo situazioni di apprendimento interattivo e collaborativo, come le simulazioni, in cui i partecipanti sono protagonisti attivi, più che recettori passivi di informazioni.

L’omologazione irrita e annoia i commissari

La psicoeducazione viene usata spesso nei progetti di psicologia all’esame di abilitazione, prove, concorsi.

Infatti, i prof sono stufi di sentirla.

Se la si vuole comunque inserire, perché si presta bene al tipo di progetto proposto, va dunque fatto con criterio.

Vediamo come.

Andare oltre i precotti

Andare oltre i precotti non significa essere originali ed estrosi, perché è sempre un ambiente accademico, dunque tendenzialmente ossessivo, non sempre amante della creatività e del pensiero critico e resistente ai cambiamenti (a parte numerose eccezioni).

Andare oltre significa, piuttosto, non abusarne, cioè una volta capito come funziona, applicare i presupposti, piuttosto che applicare direttamente il “protocollo” vero e proprio.

I commissari devono comunque correggere centinaia di compiti: se sono tutti uguali, ciclostilati, i primi 20 passano, gli altri risentono della saturazione del lettore e purtroppo hanno la peggio, pur avendo fatto il compito corretto.

Quello che vorrei dire è: non perché in giro ci sono progetti-minestrone, allora significa che il progetto minestrone è giusto, che va bene farli così, prendendoli a modello, come punto di arrivo.

Linguaggio improprio ed errato

Quando si parla di psicoeducazione, non serve scomodare la dicitura “focus group”, puoi anche dire solo gruppo.

Ancora: non ha senso inserire il “circle time”, che fa riferimento a un altro “pacchetto” nato per altri scopi, cioè l’educazione socio-affettiva.

Si può scrivere semplicemente gruppo.

Il gruppo è quel setting in cui è possibile evitare cambiamenti “calati dall’alto” e dare più spazio al confronto, alla condivisione di esperienze, di emozioni e di risorse.

Il cambiamento negli atteggiamenti, nei comportamenti, nelle modalità di gestione delle emozioni e delle difficoltà, si ottengono appunto attraverso il confronto e la condivisione.

Il che non vuol dire che sia una chiacchierata libera, perché la chiacchierata da bar non sempre basta a promuovere i cambiamenti.

Infatti, nella psicoeducazione il setting è ben chiaro ed è presente un “moderatore”, che però non sta lì per illuminare i partecipanti con la sua sapienza (come nella fase di informazioni) né a spiegare strategie specifiche (come nella fase di abilitazione/training), ma lascia spazio ai partecipanti, alle loro esperienze, alla condivisione.

Affinché il gruppo sia costruttivo, la psicoeducazione prevede questa figura, diciamo, di “facilitatore”, quindi non di docente, di autorità, ma di supporto al processo, di metacognizione, di incanalamento delle energie.

Non è la voce fuori campo manzoniana, che sa tutto e “scodella” i suoi contenuti, ma aiuta a ragionare sui processi, li aiuta a lavorare ad un livello “meta”.

Il facilitatore fa le giuste domande e fornendo i chiarimenti così i partecipanti possono “scongelare”, come direbbe Schein, le loro categorie di lettura e di comportamento rispetto a un problema, diventare flessibili.

In questo modo, essi riescono a revisionare la concezione che hanno di quel problema, a cambiare il modo di agire e a elaborare le emozioni connesse.

Insomma, va bene la psicoeducazione, ma non si può ricondurre ogni progetto a quella, per evitare compiti omologati e rigidi.

Se i commissari richiedono di sviluppare questi due punti,  ecco suggerimenti per svolgerli. In tal caso, ho ipotizzato fossero collegate a un progetto di promozione della salute basato sulla teoria delle emozioni della Fredrickson.

Implicazioni deontologiche

Questa attività è coerente con l’obiettivo delle attività dello psicologo, così come sono indicate nell’art. 3 del codice deontologico, secondo il quale lo psicologo promuove il benessere, anche grazie all’autorevolezza che acquisisce con le sue conoscenze e competenze, ma di cui non approfitta.

Infatti, seguendo l’art. 4 del codice deontologico, lo psicologo non discrimina, non manipola e non stimola la dipendenza, bensì l’autonomia di quanti partecipano alle sue attività.

In base all’art. 5, lo psicologo si serve di riferimenti e tecniche scientifiche, validate empiricamente, essendo tenuto a garantire uno standard elevato di prestazione e ad aggiornarsi costantemente: la teoria di Fredrickson risponde a questi requisiti, essendo recente e validata empiricamente, così come lo strumento DERS, validato su campione italiano recente.

Le informazioni confidenziali che possono emergere durante le attività focalizzate sulle emozioni saranno protette dal segreto professionale, enunciato nell’art. 11 del codice deontologico.

Trattandosi di attività di gruppo, lo psicologo informerà i partecipanti sulle regole del gruppo e sul dovere di ciascuno alla riservatezza di quanto ascolta, come indicato dall’art. 14 del codice deontologico.

Relazioni con altri professionisti

Prima, durante e dopo lo svolgimento del progetto, lo psicologo collabora con altri professionisti, in questo caso con educatore e sociologo. Inoltre, egli, egli si relaziona con il committente, cioè con la figura che gli affida l’incarico di predisporre e attuare un Emotional Training.

Il committente può essere, ad esempio, un’associazione culturale, una cooperativa che attua progetti di prevenzione del disagio o di promozione del benessere o un ente, pubblico o privato, che si occupa di benessere psicosociale.

Quando lo psicologo si relaziona con il committente, perché contattato da quest’ultimo per svolgere un Emotional Training, è opportuno che prosegua ad effettuare un’analisi della domanda, per comprendere le motivazioni alla base della scelta di effettuare questo percorso, le aspettative sui risultati, i bisogni territoriali e sociali che si cercano di soddisfare.

Lo psicologo, infatti, prima di iniziare un intervento, sospende la domanda, per analizzarla, provvedendo a modificare eventuali richieste o aspettative irrealistiche.

Inoltre, egli può relazionarsi con altri professionisti che intervengono durante le attività previste. Ad esempio, l’attività per promuovere la consapevolezza delle emozioni, può essere svolta insieme a un formatore, cioè un esperto di processi di formazione per adulti, così da progettare e attuare insieme le modalità esperienziali di condurre l’attività stessa.

L’attività di ampliamento delle emozioni positive può essere svolta insieme a un sociologo, per individuare occasioni sociali e situazioni in cui i partecipanti possano costruire relazioni sociali e partecipare a gruppi e reti di supporto interpersonale.

L’attività di costruzione di risorse può essere svolta insieme a un assistente sociale, il quale illustra le risorse territoriali, sia pubbliche che private, presenti nel contesto, spiegando le loro funzioni, in modo che i partecipanti possano sfruttare queste risorse, se non le conoscono ancora, e sappiano a chi rivolgersi in caso di difficoltà di varia natura (psicologiche, sociali, economiche, ecc.).

Lo psicologo imposta le relazioni con gli altri professionisti in base a quanto dettato dall’art. 6 del codice deontologico, relativo al lavoro d’équipe, che deve essere svolto nel rispetto delle reciproche aree, senza invadere quelle altrui, ma integrando le proprie competenze con quelle degli altri, ponendole al servizio dei destinatari.

Questo è solo un esempio, non esaustivo, collegato a un progetto di promozione della salute basato sulla teoria delle emozioni della Fredrickson.

Serve memorizzare statistiche?

La prova di progetto in psicologia, generalmente prevede il paragrafo del modello teorico.

Quando l’esame di abilitazione era scritto, c’era la tendenza aberrante a memorizzare statistiche, per riempirlo: serve davvero questo sforzo mnemonico?

Inutile memorizzare statistiche per la prova di progetto.

La tentazione che aleggia sui gruppi Facebook dedicati all’esame di abilitazione per psicologi è di memorizzare tutti i dati dell’Istat, sciorinando numeri e statistiche, riempiendo così il paragrafo del modello teorico.

E’ una soluzione opportuna?

Oltre a sovraccaricare inutilmente il tuo sistema cognitivo, anche se riuscissi a memorizzare tutte le percentuali di tutti gli studi su tutti gli argomenti esistenti, cosa potrebbe pensare un commissario che legge il tuo compito?

1) che hai sbirciato i dati su internet dal cellulare durante il compito, perché sarebbe inumano memorizzarli;

2) che per prepararti hai studiato in modo nozionistico e meccanico, cosa che non dovrebbe mai fare uno psicologo, soprattutto a una prova d’esame metodologica, come la prova di progetto;

3) che l’esame di stato per laureati in “scienze statistiche e attuariali” è in fondo al corridoio, a destra, quindi forse hai sbagliato aula;

4) pensiero non pervenuto: ogni commissario pensa, valuta e corregge a modo suo e chissà come lo prenderebbe un paragrafo fatto di statistiche.

Essendo un esame di abilitazione per psicologici, il modello teorico del progetto non ha la finalità di dimostrare la tua abilità nel memorizzare statistiche, ma nel comprendere un problema con un punto di vista da psicologo.

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Sono Stella Di Giorgio, psicologa e tutor per studenti lavoratori di Psicologia e TFA. Scrivimi a tutor@110elode.net per aiuto tesi.